Hannah Arendt (1906-1975)

 

Siamo capaci di giudicare?

 

La facoltà di giudizio è uno tra i poteri che la mente possiede.

Il giudizio si presenta come uno strumento adatto ad operare il passaggio tra sfere della conoscenza autonome e ambiti culturali, o spirituali, reciprocamente distinti.

Tale facoltà di giudicare si presenta, quindi, come la capacità attraverso cui la mente modula momenti della realtà, più o meno, complessi. Momenti, dunque, che riguardano la contingenza storica oppure novità (ad esempio crisi finanziare, collassi economici).

Perché porsi il problema di capire se siamo in grado di giudicare?

Perché saper giudicare significa saper cogliere i funzionamenti propri dell’ambito morale, scientifico, storico, politico. Giudicare significa, anche, relazionarsi in modo attivo a tutti gli imprevisti ed essere dotati di quella rara dote chiamata “decifrazione”.

Il giudizio apre il dato; esso ci consente di riproporre una nuova contingenza e di farlo in modo innovativo.

Attenzione però. Il giudizio non ha niente a che fare con il sapere, esso non riguarda la quantità di nozioni acquisite. È per questo motivo che l’ottusità non riguarda il sapere. Ciò che domina, oggi, la nostra realtà è l’ottusità di persone dotate di nozioni ma sprovviste di giudizio.

A parere di Hannah Arendt ciò che sta alla base della capacità di pensare è la capacità di discernimento, ossia un’abilità che, nei suoi risvolti paradigmatici, è quasi totalmente assente nella società contemporanea.

È chiaro che si sta generalizzando, ma è altrettanto evidente che, nei fatti, è proprio così.

È così perché tutto ciò che si presenta ai nostri occhi, giorno dopo giorno, non ci dà modo di pensarla diversamente.

È così perché quando le logiche economico-politiche, prive di giudizio, entrano “in gioco” non può che succedere questo.

È così perché nessuno ha giudicato circa l’operato delle banche. O, per essere più precisi, nessuno lo ha fatto in tempo.

Il libro La banalità del male, pubblicato nel 1963, insegna, e suggerisce molto altro, in proposito.

Hannah Arendt affronta il caso Eichmann con assoluta precisione. La filosofa definisce il piccolo burocrate tedesco, importante ingranaggio della macchina nazista, come un millantatore, uno sbruffone che si attribuisce meriti che non erano, di certo, i suoi. Eichmann viveva in mondo di illusioni; era un uomo ligio alle regole. Un semplice organizzatore la cui coscienza risultò essere invertita. Era l’ingannatore di sé stesso. Ecco “la banalità del male”. Non capire quello che si fa è diretta conseguenza di un deficit di pensiero, di giudizio.

Bisognerebbe fare pubblico uso della ragione, e farlo in modo disinteressato, senza alcun dogma come vincolo. Questo sarebbe uno tra i compiti dei politici e delle persone di potere in generale ma, in primo luogo, è un compito della popolazione. E lo è perché pensare che pochi singoli possano gestire, a loro piacimento, la vita di un’intera popolazione è oligarchia. E se facciamo uno sforzo cognitivo in più e consideriamo questi “pochi” come le molte facce di un unico potere, capiamo bene che, in realtà, qui si sta parlando di dittatura. Un bella dittatura democratica, in cui il potere del cittadino è quello di essere spettatore di tristi talk-show politici.